Un altro mondo è possibile

La forza dei sogni e della creatività

Se, come diceva il testo di una famosa canzone, dal letame nascono i fiori, dall’immondizia può nascere la musica.

“The world send us garbage…we send back music.”

(Il mondo ci invia immondizia…noi restituiamo musica).

Favio Chavez, Orchestra Director

I residenti di Cateura, Paraguay, non soltanto cercano di vivere al meglio in mezzo ai massicci mucchi di rifiuti che soffocano la loro città. No.
Mentre il mondo intero produce un trilione di tonnellate di rifiuti all’anno, mentre il resto del mondo parla di salvaguardia dell’ambiente e cerca di trovare soluzioni possibili ai disastri ecologici, a Cateura, Paraguay, un uomo ha escogitato un modo molto creativo per promuovere il riciclo, il rispetto dell’ambiente, la consapevolezza sociale, l’amore per la musica e soprattutto  l’educazione dei ragazzi.
Qui, da una discarica, un “selezionatore di immondizia” soprannominato “Cola”, un maestro di musica, Favio Chavez, e un gruppo di ragazzi che abitano i bassifondi vicino ad una discarica generano bellezza.
I rifiuti opportunamente riciclati e assemblati sono diventati strumenti musicali e i ragazzi educati con passione sono diventati i componenti di una vera orchestra: The Recycled Orchestra of Cateura.

Le immagini che seguono sono state scattate da Jorge Adorno (Paraguay) il 22 maggio 2013.

Il potere dei sogni e della creatività.

Da questa esperienza è nato anche un documentario: “Landfillharmonic”.
Un documentario sul potere trasformativo della musica e sulla denuncia delle due questioni fondamentali della nostra società moderna: la povertà e l’inquinamento.

Qui potete ascoltare il maestro Favio Chavez al TEDx talks di Amsterdam.

Questo  il sito ufficiale della LandFillharmonic Orchestra.

Scrissi questo articolo anni fa per il mio vecchio blog, lo ripropongo perché  è più che mai attuale ed è soprattutto un esempio virtuoso capace di scuotere gli animi.

Quello che segue è il trailer del documentario:

Il coraggio della creatività

Importanti esperimenti spontanei nel corso della costruzione di una forma originale. Nel mio studio.

Come affermava Henri Matisse la creatività richiede coraggio.

Ci vuole coraggio ad essere creativi.

Da adulti.

Coraggio, termine la cui etimologia riconduce alla parola cuore.

E’ il coraggio di percorrere una strada nuova, forse impervia, ma nostra, che non sia stata già battuta da qualcun altro.

Il coraggio di tentare per prove ed errori creando e dando forma a qualcosa che risponde esattamente a noi stessi.

Il coraggio di accettare ciò che ne deriverà, pur se “imperfetto”, insoddisfacente, non piacevole, ma perfettibile, perché frutto della nostra unicità, del nostro essere genuinamente noi stessi e non la sbiadita copia di qualcun altro.

Ascoltare il cuore, mettere il cuore nelle cose e quindi il cor-aggio, mettendo a tacere il severo critico interiore e il timore di essere inadeguati agli occhi degli altri.

I bambini sono eccellenti in questo. Osserviamoli giocare, disegnare, vivere.

Se consentiamo loro libertà, pur proteggendoli attraverso poche ma ferme e semplici regole, ecco che meravigliosamente li vedremo sperimentare, inventare, escogitare nuove ed impreviste soluzioni, giungere ad inattese scoperte per le quali proveranno entusiasmo e fierezza.
Imparano così a gestire le frustrazioni, inevitabili, del percorso di prove e tentativi, sperimentando infine una sensazione di efficacia e competenza.

E’ nella loro natura. Nella natura dell’essere umano.

O meglio, sarebbe.

Quante volte noi adulti nutriamo e sosteniamo la loro creatività?

Oppure quante volte essa viene soffocata, tarpata, o liquidata come incapacità di fare le cose nel “modo giusto”, come insubordinazione verso l’adulto?

E questi bambini potranno crescere come adulti creativi?

Ovvero come adulti capaci di integrare la parte vitale del proprio vero Sé, quella che comprende tutta la gamma delle proprie autentiche emozioni, sia piacevoli oppure no, e tutti quegli autentici modi di essere nel mondo, che non siano soltanto connessi al soddisfacimento delle aspettative altrui o all’adeguamento di se stessi ad una immagine Ideale di sé?

D’altro canto, adulti eternamente compiacenti alla realtà esterna e terrorizzati all’idea di mettersi integralmente in gioco e di sbagliare, potranno forse consentire ai bambini di crescere e maturare in un percorso di prove ed errori? O tenderanno all’ossessivo controllo degli stessi e alla stigmatizzazione dell’errore, in un perpetuarsi di un’insicurezza affettiva e di un impoverimento psichico?

Donald Winnicott, pediatra e psicoanalista britannico (Plymouth 1896 – Londra 1971), nel suo trattato “Gioco e realtà”, pubblicato a New York nel 1971, sostiene:

“È la percezione creativa, più di ogni altra cosa, che fa sì che l’individuo abbia l’impressione che la vita valga la pena di essere vissuta.

In contrasto con ciò vi è un tipo di rapporto con la realtà esterna che è di compiacenza, per cui il mondo ed i suoi dettagli vengono riconosciuti solamente come qualcosa in cui ci si deve inserire o che richiede adattamento.

La compiacenza porta con sé un senso di futilità per l’individuo e si associa all’idea che niente sia importante e che la vita non valga la pena di essere vissuta. In maniera angosciante molte persone hanno avuto modo di sperimentare un vivere creativo in misura appena sufficiente per permettere loro di riconoscere che, per la maggior parte del tempo, vivono in modo non creativo, come imbrigliate nella creatività di qualcun altro o di una macchina”.

(D. Winnicott, Gioco e Realtà, Ed. Armando 1974, Cap. quinto, La creatività e le sue origini, L’idea di creatività, pag.119)

E nel febbraio del 2006 Sir Ken Robinson, autore inglese, conferenziere e consigliere internazionale sull’educazione, per i governi e le istituzioni no-profit, nel corso del TED (Technology Entertainment Design) in cui espone un’argomentazione a favore della creazione di un sistema educativo che nutra la creatività (anziché metterla a repentaglio), dichiara:

“…i bambini si buttano. Se non sanno qualcosa, ci provano. Giusto? Non hanno paura di sbagliare. Ora, non voglio dire che sbagliare è uguale a essere creativi. Ciò che sappiamo è che se non sei preparato a sbagliare, non ti verrà mai in mente qualcosa di originale. Se non sei preparato a sbagliare. E quando diventano adulti la maggior parte di loro ha perso quella capacità. Sono diventati terrorizzati di sbagliare. E noi gestiamo le nostre aziende in quel modo, stigmatizziamo errori. E abbiamo sistemi nazionali d’istruzione dove gli errori sono la cosa più grave che puoi fare. E il risultato è che stiamo educando le persone escludendole dalla loro capacità creativa. Picasso una volta disse che tutti i bambini nascono artisti. Il problema è rimanerlo anche da adulti. Io sono convinto che non diventiamo creativi, ma che disimpariamo ad esserlo. O piuttosto, ci insegnano a non esserlo. Dunque perché è così?”

Pensiamoci.

Qui il video del suo intervento.

Istinto Creativo

“La creatività, non la normalità, è diventata il paradigma della salute psichica”. 

Stephen A. Mitchell, Speranza e timore in psicoanalisi, Boringhieri, Torino, 1995

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La Fonte, particolare, tecniche miste – Roberta Tezza

Uno dei pregiudizi più diffusi che attiene alla dimensione psichica della creatività è l’idea che pensiero creativo e malattia psichica siano non soltanto strettamente connessi, ma che la creatività sia il diretto risultato della patologia.

In realtà, dai più recenti studi, sappiamo quanto la creatività, ovvero, come da definizione di U. Galimberti, il carattere saliente del comportamento umano, particolarmente evidente in alcuni individui capaci di riconoscere, tra pensiero ed oggetti, nuove connessioni che portano a innovazioni e cambiamenti, sia espressione di un senso singolare di Sé.

Quindi di un senso di Sé autentico.

Come affermava Aldo Carotenuto chi ha esperienza diretta della malattia mentale o della nevrosi sa che in genere non è la patologia a rendere creativa una persona. La nevrosi è, infatti, soprattutto una sofferenza sterile. Quindi noi non possiamo spiegare una produzione artistica attraverso la patologia personale dell’artista. Ciò significa che il senso e il carattere dell’opera sono nell’opera stessa e non, come alcuni sostengono, nelle condizioni umane che l’hanno preceduta o determinata.

S. Mitchell, in Speranza e timore in psicoanalisi, descriveva come il paziente tipo dei resoconti psicoanalitici fosse un uomo o una donna senza sintomi bizzarri, in cui proprio il problema dell’adattamento al suo tempo e al suo ambiente viene considerato il problema, non la soluzione.

E D. Winnicott, in Gioco e realtà, sosteneva: In qualche modo la nostra teoria comprende la convinzione che vivere creativamente sia una situazione di sanità, e che la compiacenza sia una base patologica per la vita.

Quindi l’istinto creativo appartiene ad ogni essere umano? E la creatività ha a che vedere con la qualità della vita? E perché con la sanità mentale?
Da un interessante scritto di Aldo Carotenuto, dal titolo “Nevrosi, processo creativo e potere sull’altro”, traggo liberamente alcuni stralci per offrire spunti di riflessione in risposta a tali interrogativi.

(…) Potremmo pensare le pulsioni come bisogni essenziali, quali la fame, la sete, la sessualità ecc.
Ma accanto a questi bisogni, comuni all’uomo e alle altre specie animali, ce n’e uno, a mio parere fondamentale, che caratterizza il processo di umanizzazione. Gaetano Benedetti parla di un istinto esplorativo, presente anche nelle scimmie, «un istinto di manipolazione o di curiosità, di esplorazione dell’ambiente, di risolvere complessi problemi, senz’altra gratificazione se non quella inerente al compimento stesso dell’operazione» (3). Vorrei estendere questo concetto di istinto esplorativo e parlare di istinto creativo, come uno dei bisogni fondamentali dell’uomo, che caratterizza il suo stesso farsi uomo.
Se ci si chiede che cosa differenzia un uomo da un animale, non si può non rispondere che è proprio questa abilità manipolativa, comprendendo in essa ogni attività tesa a creare e a trasformare (4).
Per creatività intendo, in un senso molto generale, quell’atteggiamento che consente all’individuo di inserire i cosiddetti dati reali in un sistema di nessi e relazioni che conferiscono a quei dati un significato del tutto diverso dall’evidenza immediata.
Un’obiezione molto frequente si riferisce all’impossibilità di distinguere fra intelligenza e creatività.
In effetti sembra difficile un’opera di differenziazione dei due concetti, ma io credo che si possa tentare di intendere i due termini in modo diversi.
Mi è sembrato utile lo studio di Wallach e Kogan, i quali giungono alla conclusione che la creatività « denota un metodo di funzionamento cognitivo che ha una grande importanza nella vita del bambino. Per meglio comprendere i fenomeni cognitivi, appare ormai essenziale considerare I’intelligenza generale e la creatività come due parti dello stesso insieme che si includono I’una nell’altra » (5).
Si potrebbe dire che I’intelligenza permette di risolvere problemi avendo tutti i dati disponibili, mentre la creatività può affrontare un problema anche quando i dati non sono apparentemente sufficienti per risolverlo.
Secondo J. P. Guilford, che è stato uno dei primi psicologi ad occuparsi scientificamente della creatività, è sbagliato pensare che « il talento creativo si esplica in termini di grande intelligenza.
Non solo questa concezione è inadeguata ma essa ha contribuito largamente al ritardo nella comprensione di ciò che sono gli uomini creativi » (6).
L’esempio più classico è offerto da Galileo che con un ragionamento « controdeduttivo » mise in discussione I’apparente moto del sole.
Inoltre mi sembra interessante il modo in cui costruì il cannocchiale.
La conoscenza dell’ottica che egli aveva era di gran lunga inferiore a quella posseduta da Keplero, eppure, con grande fantasia, mise insieme empiricamente dei pezzi e dette vita a quello che oggi chiamiamo cannocchiale. « Galileo… ignorava del tutto la scienza ottica e non è troppo ardito osservare che questo fu uno degli incidenti più felici sia per lui che per I’umanità intera (7).
(…)
In una prospettiva darwiniana possiamo anche pensare che questo atteggiamento, radicato in un bisogno essenziale, abbia svolto una funzione di fondamentale importanza nella strutturazione del gruppo umano distinto da quello animale. A questo proposito c’e una differenza tra Freud e Jung. Secondo Freud la pulsione sessuale è soggetta a rimozione e I’energia che viene cosi liberata dalla sua destinazione biologica viene indirizzata verso altre mete attraverso il meccanismo della sublimazione. Ciò implica che le attività «spirituali» dell’uomo, I’arte per esempio, sono sempre un fenomeno secondario.
Nella concezione di Jung, invece esiste un vero e proprio impulso creativo. Nel 1936 cosi scriveva:
«Sebbene I’istinto in generale sia un decorso saldamente organizzato e tenda perciò a ripetersi illimitatamente, tuttavia è propria dell’uomo una forza di creare qualcosa di nuovo nel senso autentico della parola, cosi come anche la natura riesce, a lunghi intervalli, a creare nuove forme. Non so se ‘istinto’ sia la parola giusta per definire questa forza. Si parla infatti di istinto creativo perché questo fattore si comporta dinamicamente in maniera se non altro simile a un istinto. E’ obbligatorio quanto I’istinto, ma non è universalmente diffuso e non è un’organizzazione stabile e sempre ereditata. Preferisco perciò definire I’elemento creativo come un fattore psichico di natura simile all’istinto. Esso ha si una relazione intensissima con gli altri istinti, ma non s’identifica con nessuno di essi. I suoi rapporti con la sessualità rappresentano un problema molto dibattuto, ed esso ha molto in comune con I’istinto di attività, e cosi pure con I’istinto di riflessione »(9).
Questa lunga citazione di Jung ci permette di fare alcune considerazioni, legate soprattutto al problema della sessualità.
Nella storia del pensiero più di una volta ci imbattiamo nell’idea che I’abolizione della sessualità sia collegata all’espressione del genio, oppure che la sessualità venga repressa per scopi religiosi. Su questa stessa linea si possono situare I’accento di Freud sulla sessualità e il suo concetto di sublimazione.
Ma questi esempi indicano, a mio parere, solo il fatto che a differenza di altre pulsioni, come la fame e la sete, che se non sono soddisfatte portano I’individuo alla morte, la pulsione sessuale può essere controllata
ai fini dell’adattamento e dell’evoluzione. E se le prime critiche di Jung alla teoria psico-analitica si rivolgevano proprio contro il primato della sessualità, non si deve dimenticare che lo stesso Freud non riuscì a trovare soluzioni per la contraddizione cui si trovo davanti in alcune occasioni, e cioè il persistere della nevrosi nonostante un’apparente sanità della vita sessuale: « Non resta allora che ritirarsi senza aver ottenuto nulla: e rimane solo il problema di come si concili la possibilità della nevrosi con una tale indomabile esigenza d’amore » (10).
Sono proprio contraddizioni di questo tipo, che sempre si incontrano nella prassi analitica, che ci spingono a considerare il problema della nevrosi da un punto di vista diverso, pur tenendo conto delle ipotesi esplicative già esistenti. In questa ottica, avanzando I’ipotesi che all’origine della sofferenza nevrotica ci sia la rimozione di quell’impulso creativo cui abbiamo accennato, possiamo supporre che la dimensione sessuale ne faccia parte, ma solo come aspetto parziale di un problema più generate.
Analogamente, prendendo in considerazione la teoria adleriana delle nevrosi, è possibile intendere la volontà di potenza come un aspetto parziale della pulsione creativa. Secondo una corretta interpretazione dell’idea adleriana, la volontà di potenza è un elemento strutturale dell’uomo, che trae origine dal suo senso di finitudine e di inferiorità: la pulsione creativa è appunto finalizzata a superare questa difficoltà attraverso la manipolazione dell’ambiente e I’atto creativo. D’altra parte lo stesso Adler si era imbattuto in questo problema. Così scrive in un saggio poco conosciuto del 1932:
« Noi pensiamo che ogni bambino nasca con potenzialità diverse da qualsiasi altro bambino. La nostra obiezione alle teorie dell’ereditarietà e a qualsiasi tendenza a sopravvalutare il significato della disposizione costituzionale, è che non tanto è importante ciò con cui si nasce, ma ciò che facciamo di questa dotazione originaria. Dobbiamo ancora chiederci: ‘Chi usa questa eredità?’ E per quanto riguarda I’incidenza dell’ambiente, chi può dire che gli stessi influssi ambientali vengano assorbiti, elaborati, digeriti nello stesso modo da due individui diversi e possano dunque stimolare identiche reazioni? Per comprendere questo fatto riteniamo che sia necessario postulare I’esistenza di un’altra forza: il potere creativo dell’individuo» (11).
Ancora Adler ci fornisce alcune linee direttive per la comprensione di ciò che chiameremo rimozione della pulsione creativa. In un saggio sulla religione e la psicologia individuale, egli afferma che « è decisivo il fattore prospettico insito nel potere creativo del bambino, la sua intuizione creativa » (12), ma che comunque un’educazione inadeguata può condurlo verso direzioni sbagliate.
Da un punto di vista completamente diverso, Martin Buber arriva tuttavia alle stesse conclusioni. Riflettendo sull’importanza dei problemi educativi, Buber afferma che « la tendenza a creare, se trova la sua più alta manifestazione negli uomini di genio, è presente, benché in grado più debole, in tutti gli esseri umani. Esiste in tutti gli uomini un chiaro impulso a fare delle cose, un istinto che non può spiegarsi con le teorie della libido o della volontà di potenza, ma è disinteressatamente di quell’istinto il modo col quale il bambino tenta di esternare delle parole, non come date cose che voglia imitare, ma come cose originali da tentarsi per la prima volta»(13).
Spesso mi viene chiesto quali siano i problemi che più frequentemente incontro nella mia pratica professionale. (…)
Pur essendo consapevoli che spesso si trova solo ciò che si cerca, certe evidenze diventano a volte pressanti e si è costretti a prendere atto di una nuova condizione di sofferenza, non riducibile a una sola realtà, ad esempio quella non facilmente equivocabile espressa dalla parola « sessualità ». Quella a cui mi riferisco è una situazione più complessa che può essere definita come paura di essere creativi oppure, come già detto, rimozione della creatività. Nella quasi totalità i miei pazienti, all’inizio della terapia, soffrono per quello che oscuramente percepiscono come un blocco delle funzioni vitali originarie, che li fa sentire più automi che uomini. Queste persone sembrano aver cessato, o non aver mai iniziato a esistere nell’unica dimensione umana autentica, ossia la propria originalità individuale, per affidarsi invece alla ripetizione e al già stabilito. Ma la loro sofferenza riguarda proprio questa mancanza di differenziazione rispetto alle leggi collettive che regolano la vita. Non è facile dire perché in questa situazione alcune persone si ammalano e altre no. E’ come se I’lo avesse dei livelli di adattabilità oltre i quali comincia a soffrire, con una sintomatologia la cui varietà è ampiamente descritta nei testi di psicopatologia. Di fronte a queste persone si ha I’impressione che sia stato toccato un livello primario dell’attività psichica, ossia quella creatività che abbiamo definito un fatto strutturale dell’uomo.
Come afferma Maslow, «la creatività di cui stiamo parlando è una caratteristica fondamentale, insita nella natura umana, una potenzialità che tutti, o quasi, gli esseri umani possiedono alla nascita e che nella maggior parte dei casi si smarrisce, o resta seppellita, o viene inibita a mano a mano che I’uomo si lascia assimilare nella civiltà»(14).
(…) molto interessante anche il lavoro di Patricia Cobb che si accorge in modo del tutto particolare di come emerga il fattore creativo nel bambino. Riassumendo dalle discipline più diverse la Cobb arriva alla conclusione che le capacità percettive individuali nel loro dar forma al mondo esterno, relazionandolo al mondo interno, sono la premessa indispensabile non solo della creatività ma addirittura della stabilità mentale: «La salute di una persona dipende dalla sua creatività, perché nel rispondere agli stimoli e nell’adattarvisi, ciascun individuo cerca di raggiungere un fine che, in un certo senso, egli si è prescelto»(17).
II problema che voglio affrontare riguarda il processo di inibizione cui è sottoposta la pulsione creativa. Rivolgiamoci ancora all’esperienza clinica, che fornisce il materiale e gli stimoli per la nostra riflessione.
Un elemento comune nei pazienti è il loro particolare rapporto con la paura. A differenza delI’angoscia, che è uno stato emotivo paralizzante privo di una ragione specifica, la paura ha sempre una causa precisa che, nel nostro caso è la presenza giudicante dell’altro. In questa paura dell’altro riconosciamo I’interiorizzazione a livelli molto profondi della figura del « padre castrante » che nei mitico Crono trova il suo più illustre antenato. (…)
I pazienti di cui sto parlando portano in se questo terrore di essere distrutti, e I’accomodamento in una pseudoesistenza sembra essere I’unico modo di sfuggire alla temuta aggressione del « padre ». Questa modalità nevrotica si concretizza nella non espressione o in una supina accettazione dei codici che regolano il comportamento umano.
Questo processo di inibizione della pulsione creativa ha origini molto precoci e il modello teorico di Neumann può offrirci alcune utili indicazioni (18). Secondo Neumann, nella relazione primaria con la madre il bambino introietta gradualmente la figura materna quale rappresentante di una totalità — quella del rapporto madre-bambino appunto — con cui I’lo del bambino, nel corso del suo sviluppo, si collega attraverso un «asse » psichico. Ma se nel rapporto reale ci sono delle complicazioni di carattere affettivo, questo asse, che è poi il fondamento di ogni successiva possibilità di relazione, non può strutturarsi normalmente. In questa situazione, tutta I’energia è come assorbita nel tentativo di risanare la frattura.(…)
Si potrebbe dire che la persona nevrotica manca la propria esistenza investendo tutta la sua energia in operazioni difensive piuttosto che offensive, intendendo con questi due termini un impiego finalizzato alla mera sopravvivenza rispetto invece a un atteggiamento creativo. Punto centrale della questione diventa allora la figura interiorizzata del padre. « Uccidere il padre » significa, nella mia ottica, confrontarsi realmente con le proprie capacità creative che sono continuamente ostacolate dalle generazioni precedenti. Sul piano fenomenico la dipendenza dall’autorità dei padri e la conseguente rimozione della propria creatività possono assumere la forma di un atteggiamento ipercritico, soprattutto di un’autocritica che spinge I’individuo alla paralisi completa, poiché lo confronta continuamente con i parametri irraggiungibili della perfezione. Così questo desiderio di perfezione, nella sua irrealtà, soddisfa gli interessi del « padre » interiorizzato, vale a dire realizza proprio quell’« uccisione dei figli » cui si tenta nevroticamente di sfuggire. E allora il mito di Edipo deve affiancarsi al mito di Crono, come anche al mito persiano di Rustum e Soharab che è al centro di un importante studio sull’ostilità degli adulti verso i giovani (20). (…)
La figura del padre si erge ormai ben oltre le soglie della maturità, dirottando le energie creative del figlio verso altre direzioni che sono contrarie allo sviluppo individuale. La difficoltà di raggiungere la propria indipendenza e il proprio controllo si traduce in quel diabolico meccanismo proiettivo per il quale I’incapacità di essere indipendente diventa la molla per rendere dipendenti gli altri.
Come ci dice anche il mito di Crono, nel quale solo Zeus riesce grazie all’intervento della madre a sfuggire la distruttività del padre, I’individuo creativo supera lo scontro con la figura paterna proprio per I’esistenza dentro di lui di una dimensione integra, quella che chiamiamo con Neumann «asse lo-Sé». Come abbiamo già detto, questo asse è il risultato di un soddisfacente rapporto precoce con la madre, che consente di interiorizzare quel senso di sicurezza che il rapporto storico madre-bambino ha realmente offerto. E’ questa sicurezza interna che permette di incontrare, senza essere schiacciati dalla paura, il nuovo e I’imprevisto. Al contrario, la frattura dell’asse lo-Se conduce a uno stato di perenne precarietà e alla conseguente esigenza di controllare I’imprevisto. E in mancanza di una sicurezza interiore, ciò avviene attraverso il controllo degli altri. In altre parole, ho bisogno di dominare gli altri e me stesso perché non ho una sicurezza interna.
Come la creatività non va identificata solo con I’espressione artistica, così anche il dominio sull’altro non sempre coincide con una palese posizione di potere ma, piuttosto, con tutte quelle forme di rapporto, spesso assolutamente inconsce, con le quali I’individuo raggiunge di fatto il controllo sulle azioni altrui. (…)
A livello individuale I’atteggiamento di dominio, anche se non assolve una funzione ricattatoria, va incontro alle esigenze di un lo insicuro che deve controllare la creatività, propria e altrui, per non sentirsi minacciato nel proprio assetto. In altre parole, è come se ci trovassimo di fronte a una coazione a ripetere quell’esperienza primitiva di paura davanti al padre punitivo. (…)
Torniamo allora all’idea che I’uomo capace di vivere la propria creatività non cerca il potere e il controllo sugli altri. A. D. Cosswell così scriveva: « La nostra ipotesi principale a proposito di chi cerca il potere è che egli insegue il potere come mezzo di compensazione contro la deprivazione. Con il potere ci si aspetta di superare la bassa stima del sé » (22). A questo punto torniamo ai problemi posti all’inizio del nostro articolo. Ci si è mai interrogati sulle modalità di controllo che le persone nevrotiche sviluppano verso se stesse e verso gli altri? Basterebbe avere in mente i disturbi fobici per capire che in fondo a ogni nevrosi c’è un tentativo di manipolazione dell’altro, che è insieme I’altra persona e I’altro dentro di sé.
II miglioramento e la guarigione della nevrosi passano, nella totalità dei casi, attraverso un recupero dell’attività creativa.  (…)
(3) Gaetano Benedetti, Neuropsicologia, Miiano Feltrinelli, 1976, p. 96. Si veda anche il concetto di« pulsione epistemofilica » in Melanie Klein, Scritti
1921-1958, Torino Boringhieri, 1978, pp. 37 sg., 274 sg., 277 sg.(4) Per quanto riguarda il problema della creatività si vedano: Alain Beaudot,
La creativite, Parigi, Bordas, 1973 (trad. it. La creativita, Torino, Loescher, 1977); Albino C. Bosio (a cura di), Sulla creativita, Milano, Vita e Pensiero, 1979; Moya Tyson, « La creatività», in Brian M. Foss, / nuovi orizzonti della psicologia, Torino, Boringhieri, 1968, pp. 164179; G. Calvi, « La creatvita», in L. Ancona (a cura di), Nuove questioni di psicologia, vol. I, Brescia, Editrice La Scuola, 1972, pp. 637-712; E. Garroni, « Creativita », in Enciclopedia, vol. 4, Torino, Einaudi, 1978, pp. 25-99.

 

(5) M.A. Wallach e N. Kogan, « Nuova impostazione del problema della distinzione intelligenza -creativita», in A. Beaudot, La creativita, op. cit., p. 82.

(6) J.P. Guilford, « La creativita-, in A. Beaudot, op. cit., p. 41, presente anche nelle scimmie, « un istinto di manipolazione’ o di curiosità, di esplorazione dell’ambiente,

(7) Citato in P. K. Feyerabend, / problemi dell’empirismo,  Milano, Campognani  Negri, 1971, p. 165.

(9) C. G. Jung (1936), « Le determinanti psicologiche del comportamento umano », in La dinamica delI’inconscio (Opere vol. 8), Torino, Boringhieri, 1976, pp. 136-137.

(10) S. Freud (1914), « Osservazioni sull’amore di traslazione », Opere 19121914, op. cit., p. 369.

(11) A. Adler (1932), « TheStructure of Neurosis », in Superiority and Social Interest,
Londra, Routledge and Kegan Paul, 1965, pp. 86-87.
(13) Herbert Read (1943), Educare con I’arte, Milano, Edizioni di Comunita, 1973, p.331, dove si fa riferimento alla conferenza sulI’educazione tenuta da Martin Buber nel 1925
(<Rede uber das Erzieherische», di prossima pubblicazione nel volume Reden uber Erziehung, Heidelberg, Verlag Lambert Schneider).

(14) A. H. Maslow (1959), <¦La creativita nell’individuo che realizza il proprio io », in Harold H. Anderson (a cura di), La creativita e le sue prospettive, Brescia, Editrice La Scuola, 1972, p. 115.

(16) Paul Matussek, Creativita come chance, Roma, II Pensiero Scientifico Editore,
1976, p. 211.
(17) Patrizia Cobb, // genio deil’infanzia, Milano, Emme Edizioni, 1982, p. 92.
(18) Erich Neumann, The Child, New York, G.P. Putnam’s Sons, 1973, pas sim.
(20) Leon Sheleff, Generations apart: Adult Hostility to Youth, New York,
McGraw-Hill Book Company, 1981, pp. 39-41.
(22) A. D. Cosswell, Power and Personality, New York, The Viking Press, 1962, p. 39.